Franco Migliaccio

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Solo uno sguardo superficiale potrebbe giudicare l’opera di Claudio Borghi come un’esperienza, una delle tante, direttamente estratta all’Informale plastico. I legami a tali esperienze, peraltro innegabili, sono consumati in un afflato poetico di diversa natura, ove non giunge estranea quella “linea d’ombra” che collega (in genere) l’arte lombarda ai problemi dell’ambiente umano e che in passato si esprimeva con quel crudo realismo, con quella fame di verità, che ha portato alla ribalta tanti insigni artisti (da Caravaggio a numerosi ottocentisti).

Interpretare ed esprimere oggi quelle medesime inquietudini significa declinare un proprio, naturale imprinting coi mezzi di cui l’artista può disporre e, fra questi, non solo quelli di natura fisica (gli strumenti, i materiali) ma anche quelli di natura ideativa, concettuale (l’irrompere di tanti movimenti innovativi, durante il Novecento, non è stato, storicamente, un semplice fattore accidentale). Ecco perché i legami di Borghi con l’Informale vanno ritenuti secondari, puri mezzi (e non 6ml) con cui far risaltare le consistenze emozionali di una poetica che trova mille altri motivi per rendersi viva, palpitante e, soprattutto attuale.

In effetti le opere di Borghi, feconde di proiezioni spaziali date da un’inclinazione costante all’orizzontalità e da una volumetria piana, quasi bidimensionale, sono da considerarsi delle rappresentazioni struggenti di paesaggi feriti, la violazione dei quali è data da una materia corrosa, lacerata e poi rimontata, ricucita e saldata da nere suture.

Non sono paesaggi idilliaci dunque, non è una forma di naturalismo lirico e accomodante, fatto per intenerire lo sguardo, e neanche quell’introspettiva manifestazione romantica che rileva dall’ambiente l’impeto travolgente e la terribilità sublime degli elementi; qui la terribilità è data da una consapevolezza umana, da una coscienza critica che si fa segno doloroso, colore inquietante, gioco drammatico di luci, ombre, incavi e rilievi, flussi di energia con cui la materia straziata tenta una sua improbabile rigenerazione.

I piani della scultura (lastre metalliche “pericolosamente” incurvate e deformate) seguono assi irregolari che inducono a turbamenti, a piccole angosce visive: tutto si mantiene in uno stato di precarietà che sembra sconfessare la statica, le leggi fisiche dell’equilibrio, i tradizionali sistemi di appoggio, di stabilità e di permanenza nello spazio.

In questa “confusione” in cui tutto sembra nascere dal caso, si nasconde -ed emerge- una volontà organizzatrice che è l’abilità dell’artista nel dominare l’insieme; un insieme reso, attraverso celate ma precise e a volte rigide strutturazioni, territorio di coinvolgimento emotivo, ma anche luogo di riflessione e di meditazione poetica.

luglio 2001