Stefano Crespi

dal catalogo della mostra a Barlassina

"LA PRESENZA, IL GESTO E L'INTERIORITA?"

 

Nell'accompagnare la mostra di un artista nel luogo di origine, è difficile sfuggire al dato di emozione che è l'aria esatta, quella sorta di trama accidentale e irritornabile dove vive non astrattamente, non programmaticamente, una esperienza creativa nell'immaginazione, nelle nostalgie e nelle escontentezze, nell'amore e nella solitudine.

E' una prima indicazione, ma non inopportuna se si considera che la vita nell'arte non sta tanto nell'idea, nel concetto (persino nella metafora) quanto invece nell'atteggiarsi,nel modo di sorgere e di ricadere, nel timbro e nella sfumatura di una voce, nel sapore e nella modalità viva e presente dell'esistenza.

Molte vicende dell'arte, della poesia, e persino dell'intelligenza critica hanno fondato le ragioni espressive nel dissidio e nella positiva dialettica tra "forma" e "informe", la fedeltà e il nuovo, le ragioni del cuore e la scena della storia.

In alcuni l'espressione è stata proprio un difficile coniugare lo struggimento di un tono e la commisurazione con la modernità. Anche nel "configurarsi" di questo giovane scultore si incontrano, si scontrano, diventano scrittura i termini vitali di un dissidio.

Da una parte ritroviamo un ethos così vincolante nella tradizione, nella memoria, nei riferimenti: l'epopea dolce e feriale di Bernardino Luini, indelebili segni di un sentire severamente borromaico, il suono della parlata di Carlo Porta; e la commozione così infinitamente lombarda dei prati, del verde, delle colline lievi, delle stagioni. Dall'altra parte c'è l'irresolvibile propensione a "impadronirsi della irrealtà", dell'altra storia; a determinare il punto di rottura verso una nuova narrazione di se stesso, nell'impulso di scoprire una nuova scena in cui investire la pienezza dell'intelligenza e dell'affettività. E' la mobile irrequietezza di un orizzonte europeo, una sorta di impalpabile malinconia per tutto ciò che manca, per la vita che balena irreperibile e fuggitiva. Sono conferma di percorsi, di rovelli, di varchi talune pagine emblematiche delle sue letture più ricorrenti. Con quell'affondo amoroso che è spesso il modo di leggere degli artisti: interno alla poesia, senza remore, senza mediazione, precipite. Montale e Pavese. Mario Luzi Dal fondo delle campagne ("Per anni e anni / la vita segue la vita / con la fedeltà che ha l'ombra / mentre scorre il fiume, / mentre il filo d'erba trema").  E poi Rainer Maria Rilke, Simone Weil, Il tempo grande scultore di Marguerite Yurcenar, Holderlin tradotto da Gianfranco Contini. Sono stimoli e suggestioni che possono essere visti come segnali di una poetica, di confronto, di apertura a una pi• vasta misura del destino, del reale, di una liberante solitudine.

Nelle declinazioni dell'arte contemporanea, infinite sono le connotazione di espressione di scrittura, di "segno": segno come materia, o grafia, o rivelazione; o esplosione di impulsi, o primordialità di natura, o durata mitica; o rapimento contemplativo, o ferita, o nostalgia stessa della pittura; o anche accadimento, o  puro esperire, o estetica degli oggetti. Connotazioni a cui non è difficile porre accanto i rispettivi nomi di artisti: ora laceranti e assoluti , ora immessi nella trama della prosa dei linguaggi, In una pagina discreta di Claudio Borghi (dalla inedita "Bozza per una autopresentazione") c'è una riflessione significativa che, al modo di una cifra riassuntiva, indica come meglio non si potrebbe il "segno" della propria scultura: "... Presenza, nel senso in cui la intendo io, designa qualche cosa in più della sola presenza di un'opera nella porzione di spazio in cui mi trovo. E' una presenza vivente del tutto distinta da quella degli oggetti inanimati, ma anche quella di un essere vivente che potrei avevre di fronte. Presenza di qualcosa che conosco e che cattura la mia attenzione non come opera modellata e dipinta, semplicemente degna di essere ammirata. La presenza di cui parlo... è nello stesso tempo presenza globale dell'opera, presenza illusoria del fatto rappresentato, realtà, presenza manifesta di una lotta: quella che l'autore ha dovuto affrontare per arrivare all'opera".

Scultura dunque come "presenza": una plastica essenziale, fatta di forme necessitanti, sommaria e "sgraziata", quasi avava, tesa a un'espressione senza compiacenze, senza affascinanti languori o volumetrici pretesti; non seduce con la grazia, non invita al sogno; ha in sè lo slancio severo che impedisce lo spandersi nella cronaca, o di consumarsi nel mutevole.

Un'esperienza di scultura che ha fatto propria la lezione informale in quello che è stato il tendere a una vita il pi• profondamente vissuta entro un fluire organico;in quelli che sono stati i caratteri di induzione, di una moderna empiria, esplicito e implicito, di leggi "date", mentali, intellettualistiche che erano state spesso prevalenti nella prima metà del nostro secolo. Eppure ciò che caratterizza questa scultura è il tendere a una "forma", non certo prestabilita, ma come forza propulsiva, immanente misura, non abdicante tensioni sulla frontiera dell'umano.

Non il naufragio irrazionalistico, non l'abolizione di qualsiasi a priori, e nemmeno l'ineluttabile ancorarsi alla "parete dell'angoscia". Sono così infrante le categorie della rappresentazione o del momento oggettivante della coscienza. Ma essere riafferrato è il legame indissolubile  tra eticità e scrittura: non possiamo scrivere qualche cosa di vero se non siamo veri. Una sorta di "coraggio" che porta non al rafforzamento dell'immagine egocentrica, o a effimere epifanie; bensì a "immagini della necessità" imposte dal tempo della vita: queste sculture (in una remota figurazione di paesaggio o figure) avvertono il frantumato sentire dell'oggi; un desolato colore del vuoto sembra insidiarle. Reggono al vento del dubbio, dell'esitazione, della contraddizione con sgomenta semplicità, con una bellezza ferita ma rigorosa.

Se da  una parte l'imformale è stata un'accelerazione del tempo dell'esistenza, nel ritmo della poesia, e quindi nella materia asuunta nella pienezza testuale, è da ribadire quanto queste sculture, nell'arco del decennio in corso, esprimono il cammino verso il significato, verso una sorta di eredità mitica della poesia salvata e custodita dai poeti sulle ceneri del moderno o nell'attraversamento delle favole illusorie della cultura. Si tratta cioè di un capitolo della scultura che implica (al suo esordio) una rimediazione delle figure fondative del secolo, quali Rodin, Rosso, Giacometti: l'umana terrestrità, il forte legame alla vita nella caducità dello stato di grazia, la carica di pathos che sono di Rodin; il processo di sintesi dell'emozione con lo spazio, l'atmosfera, la luce di Medardo Rosso; il protendersi destinale della condizione umana in Giacometti.

Nel giro stringente delle affinità, sono da richiamare le pagine di Rilke per Rodin.

La presenza della scultura custodisce l'infanzia oscura, indagatrice e incerta; custodisce le ore trascorse, una vita che non ha perduto nè dimenticato nulla: "una vita che si racconta attorno al proprio fluire". La pittura sogna il mondo, trasfigura le cose, le penetra nella luce dell'alba e del crepuscolo, le circonda di tenerezza e di estasi; o si lascia da esse trasportare come un'onda.

La scultura vive in una misteriosa presenza, in una pacatezza assorta e severa: in essa il paesaggio non ha mai nè viso, o altrimenti "è interamente viso" nello sguardo infinito di un giorno senza tempo.

La scultura è gesto, innaugurazione di senso, è evento nella capacità di significare, nella indefinita sopravvivenza dell'espressione umana. All'arte povera come  mondana irrequietezza sociologica, possiamo sostituire l'hideggeriano "tempo povero" della scultura nel " farsi corpo della verità dell'essere". Queste opere hanno l'ambiguità, la sensualità, la vibrazione voluttuosa, l'inquietudine di moti ondosi: ma anche la gravitazione interiore che è gesto etico della conoscenza.

C'è una consequenzialità nel recente capitolo espressivo delle sculture in ferro nel tendere a porre in atto un'ulteriore perentorietà tematica ed espressiva. Nell'arte tutto passa e tutto torna. Nell'adibizione di questi materiali, c'è un'urgenza di interiore sperimentazione di linguaggio. Ma è quanto di più lontano si possa immaginare dalle motivazioni e connotazioni linguistiche che hanno caratterizzato la pratica artistica come pura fenomenologia di linguaggi comunicativi.

Lo scenario non è qui o demistificante, o ironico, o ludico, o di puro accadimento. La scultura si è depauperata, sottratta alla astratta eternità, privata del suo epos: ma ritrova la sua innocenza dei materiali alla deriva dei tracciati della storia; porta con sè tutta la reminiscenza contemplativa della vita e dellla morte, del giorno e della notte, della volontà e dell'abbandono. E' l'esigenza del mondo allo stato puro: libera della solennità museografica, ma anche della " vanità delle avanguardie".

Sono opere che vivono di una sorta di non colore: di una insonnia arcaica di fronte ai colori caduchi della mutevolezza.

Quasi di una pausa vuota della storia c'è in esse un deserto mondano: ma anche tutta una "resistenza" umana nel suo destino di peribilità e di primordiale perennità.

Nel "declino dell'affetto", nella società della cultura generalizzata, nel labile contaminarsi delle immagini, nello spaesamento e nella dissoluzione dei "grandi racconti"; in tutto ciò il grigio e marginale mondo di questi ferri sono "l0altra storia": quello che resta di noi, quando non diventiamo mostri; la friabile ma ferma narrazione che si leva e resta sospesa sulle ceneri del mondo.

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PRESENZA E FIGURA

Testo al volume “25 disegni di Claudio Borghi”, ed Galleria delle ORE, Milano Novembre 1993

 

 

Nell’esperienza artistica di Claudio Borghi, la scultura ha una sua riconoscibilità, già consegnata ad una breve storia di fatti espositivi, di lettura critica: ne rappresenta, si potrebbe affermare, l’espressione primaria. L’uso stesso dei materiali, espressivi diventa in qualche misura rivelativi di un cammino, rigoroso nel dato necessitante di poetica, di sentire; ma nello stesso tempo duttile, pronto a ricominciare, a evolversi, Basti richiamare il passaggio dal bronzo, al ferro, e ora al rame nella sua stagione in atto. Certo è una progressione non intenzionale o volutamente paradigmatica, ma significativa: sotteso è quasi l’impulso a tendere verso una innocenza sempre più radicale della materia, dell’atto artistico.

Il bronzo conserva ancora una memoria della scultura, del suo universo metaforico, di una nostalgia dell’eterno. L’artista, anche nell’approccio al bronzo, ha una consapevolezza e una severità che lo porta ad una plastica essenziale, priva di compiacimenti, o di languori, o di volumetrici pretesti.

L’uso del ferro ha costituito il bisogno di uscire, con cifre espressive più esplicite, dai connotati mentali, intellettualistici insiti nella tradizione della scultura in bronzo. Il ferro rende palese la definitiva caduta dallo stato di grazia, libera una insonnia arcaica, ha in proprio quella sorta di resistenza umana, di primordialità sottratta ai segni illustri del linguaggio

Oggi Claudio Borghi vive l’attuale momento attraverso la mediazione del rame: per un ulteriore bisogno di flessibilità, di verità più diretta e precaria. Con la fiamma ossidrica, ricava un colore interno (rosso, blu, arancione, violetto), quasi di metamorfosi, non giustapposto da un paradigma linguistico.

Il mezzo espressivo può sembrare una sottolineatura apparentemente formale: si riporta invece a una linea che è di ricerca tematica. Si può quasi intravedere la scansione di un percorso che si attua nel segno della circolarità. In arte tutto passa e tutto ritorna con nuovi accenti, interferenze, e nuove citazioni. In questo artista, gli anni di esordio e di maturazione nella scultura sono riconducibili nell’area dell’informale, al suo intreccio di implicazioni, di materia e di natura, di segno e di movimento.Ma non c’è informale che non abbia una “forma”, che non ricerchi la misura più segreta, o più vera, o più dolorosa di un nuovo volto.

L’aspetto più meritevole si riconferma in una esperienza artistica che non si consuma nella ripetizione di una sigla, o di un rito: nello studio di Claudio Borghi i lavori recenti in rame tentano un nuovo confronto con la figura, o con un gruppo di figure. È il percorso dall’informale alla “forma”: alla forma appunto della figura ritrovata nell’originalòità, nell’archetipo di una nuova grammatica.

Gli scritti degli artisti hanno una intuizione aforistica, trascinante. Rivelano, dall’interno, una poetica, o l’attrito di una ricerca. Ho già avuto modo di richiamare una riflessione di Claudio Borghi da una sua inedita Bozza per un’autopresentazione. In una cifra riassuntiva, indica ilk segno della propria scultura nel suggerimento di presenza. La presenza non è una definizione di fisicità: è intesa invece in tutta la sua dimensione di atto, di illusione, di lotta, di gesto etico.

Da un preciso punto della propria riflessione, la presenza viene a coincidere con un tema molto avvertito della saggistica in corso: il luogo, il vero luogo, figura geografica e mitica al tempo stesso, è il rifiuto della religione del concetto, della rappresentazione concettuale del mondo, o della pura linguisticità in seno alla quale si possa esistere dimenticando il senso stesso della finitezza, la dimensione della temporalità, il segno umano di un hic et nunc.

In un saggio recente, Yves Bonnefoy (poeta, critico d’arte acuto e suggestivo a cui si deve una recente monumentale biografia critica per Alberto Giacometti) parla della grande pagina immobile dell’arte che non si identifica con il regno dell’astrazione, o con il recinto naturalistico: il flusso temporale dell’immagine è via via restituito all’atto, al coraggio agli strumenti umani, al senso di conquista della morte e dei sensi. Cèzanne è l’esemplarità di un pittore altrettanto errante quanto intensamente fisso in un luogo: la sua pittura sa raggiungere quella immanente luminosità che la poesia sogna dopo “il declino dei simboli”.

Claudio Borghi, nella cifra di presenza, indica un proprio modo e di concepire l’arte. Rimedita la lezione di Rodin, di Rosso, di Giacometti; attraversa la spinta propulsiva dell’informale nella tensione a compiersi nello spazio e nel tempo, si misura con il significato anche etico della forma. E tutto ciò con quanto la presenza comporta di unicità, di luogo, di pagina immobile, di destino espressivo.

Rivedendo, al suo paese, e nella semplicità del quotidiano, Il Monumento ai caduti nel cimitero di Barlassina, si ha proprio la sensazione e la percezione di un’opera toccante tanto è intrisa all’atto originario di un ethos: vi è una grande pianura e il gesto dell’uomo, il dolore e la pietà, la severità e la pazienza della vita fedele alla vita.

In rapporto alla scultura, il disegno si dispone nella metafora del viaggio: il disegno è anche scrittura, è poetica, è l’altrove rispetto alla presenza, è partenza, è quel varco che l’artista tenta continuamente di aprire tra la materia del presente e il vento di una nuova lontananza.

 I moderni strumenti critici (anche per l’apporto della linguistica, della psicologia e della percezione) hanno aperto una intelligenza nuova di fronte al fatto espressivo del disegno, sottratta definitivamente all’idea classica del progetto, di subalternità al quadro o alla scultura. La concezione del tempo, nella moderna figurazione, non come successione cronologica, declinazione storica, bensì come inveramento, durata, memoria, dispiegamento della presenza qui e ora, o spazio di ogni possibile accadimento,; questa nuova concezione del tempo ha di fatto irreversibilmente eliminato la distinzione astratta del “prima” e del “ dopo” (del progetto e dell’opera). Nel senso vitale delle cose, nell’esserci della presenza, ogni momento espressivo comporta una propria misura della verità, di necessità: il disegno, come tutta l’area dell’invenzione, viene ad essere il luogo dell’espressione totale.

La presente edizione raccoglie una scelta recente di disegni di Claudio Borghi nell’accezione lata di opere su carta e in una linea consequenziale di paesaggi-montagna, delle figure, dei volti. Si tratta di disegni che si dispiegano per lo più si grandi fogli: oltre al tempo intimo, segreto, altro, che è stato spesso la connotazione del disegno, è molto avvertita la dimensione della spazio. Lo spazio non risponde solo alla misura della figurazione moderna. E’ anche, in questo caso, cifra e quasi referente della pianura: la pianura metafora del foglio, la sua orizzontalità il senso di totalità, di orizzonte, di libertà da codificazioni. La realtà, qui, è catturata dentro la sua nudità: la scrittura del disegno ritrova ritmi, scansioni, invisibili geometrie, spinge più avanti il flusso della vita.

Si potrebbe forse ricordare che l’esempio più alto di una concezione del disegno nella pura accezione del tempo è rappresentata da Giacometti (la litografia di Giacometti era invece sentita come un a priori di spazio). Il lieve paradosso di una espressione di Giacometti (“disegno perché non so disegnare”); la confidenza che faceva a Sartre di sentire che nella sua opera nulla durava; Tutto ciò ribadisce un atteggiamento che si riconferma nella cifra espressiva del tempo. Giacometti disegnava ovunque (in viaggio, quando veniva accompagnato in macchina); disegnava su ogni mezzo (buste, ritagli, margini di libri). Disegnava apparentemente il volto, la figura, l’interno, la lampadina, la sedia, la madre. Di fatto disegnava l’evento irritornabile, l’ossessione, l’enigma disperante del tempo.

L’esempio addotto di un disegno nell’accezione del tempo, può servire a chiarire come in questi fogli l’intensità, il movimento dl tempo si rapporto a l’exactitude, alla forma in uno spazio, quasi al senso di una verità che ci supera e appare come un’idea infinita. Certamente rispetto alla scultura che è appunto presenza, quella sorta di pagina immobile, di cui si è parlato, i disegni sono i viaggi che partono e ritornano, i viaggi anche mentali:cose, luci, ombre, riflessi, colore sono interrogati con uno sguardo dell’interno. Rispetto al qui del mondo rappresentato dalla scultura, i disegni sono l’altrove delle peregrinazioni, dei moti del cielo e dell’esistenza.

La prima sequenza di questa edizione sono paesaggi-montagna, i più riconducibili a piani e forme di alcune sculture. Sono paesaggi di natura e di astrazione, di luoghi e di non luoghi, di colore e non colore. Esprimono una visibilità segreta, o con una bella espressione di Cezanne, una “natura all’interno”: qualità, luce, colore, profondità sono laggiù perchè risveglino un’eco nella visione del pittore. Hanno l’impianto di una costruzione, di una grammatica: e nello stesso tempo sembrano vivere nell’indeciso mormorio di essenze visive, di significazioni mute.

Si tratta di paesaggi che non hanno una tonalità locale, coniugano sensazione e pensiero, postulano appunto un paesaggio ripensato nella coscienza: premesse che confermano un rapporto prima o poi non eludibile con la fenomenologia dell’eros e quindi della figura. Claudio Borghi ha sempre avuto con la figura non certo una preclusione formale (basti pensare ad alcune sue sculture; basti come esempio ripensare al tema Albero-stele che altro non è che il paradigma intangibile della figura); ma come una reticenza, e quasi una sorta di pudore, è stata la figura forse un po’ storica dell’arte milanese, Giovanni Fumagalli della Galleria delle Ore, a spingere Claudio Borghi a liberare. In modo consequenziale, questo tema che è la parte centrale delle carte.

La figura, si sa, ha sempre rappresentato lo sforzo massimo d’invenzione nella cultura figurativa: anche se non descritta, viene segnalata, inseguita affannosamente, ricercata nell’alfabeto primordiale del linguaggio, o dello stesso informale. La perdita della figura è la perdita stessa della parola autentica e vissuta, dissipata nell’accumulo di fatti espressivi, dell’informazione generalizzata.

Spesso si ha modo di ribadire che le parole sono state consumate, non appartengono più allo scrittore;  che il viaggio della poesia è finito nell’intreccio apparente di significati tematici, psicologici, stilistici;  che la pittura è stata tutta dipinta nelle favole e nelle forme. Ciò che ha in proprio la figura è che sfugge alle grammatiche intellettuali, non è declinabile nei paradigmi formali. La figura non è ripetibile perchè non è ripetibile il movimento del desiderio, della grazia, della nostalgia, dell’infelicità, del tempo che contraddice lo spazio.

Nella figura è custodito ciò che è remoto nel tempo: le cose, i colori, le parole, le idee del presente sono il commento di una vita oscurata. Claudio Borghi vive certo questo rapporto con la figura a un’altezza cronologica di problemi critici, di interferenza. Nella iconologia di questo tema, non si può sfuggire a esemplarità assolute che ogni volta hanno tentato il punto limite d ciò che umanamente rimane indicibile: basti pensare al pathos nei disegni di un nudo di Rodin, o alla purezza senza tempo di Modigliani.

Dopo che si è parlato di morte della storia, di morte dell’arte, di morte del “corpo”, può essere sotteso un certo rischio nella volontà di misurarsi con questo tema, per di più non in codice di citazione. Claudio Borghi libera il tema da rimandi citazionistici, ma anche dalla continuità di un genere. Investe il tema con accenti di gesto, di segno, di luminosità. Di esistenza. Dalla riflessione e dalla pagina di Ruggero Savinio, viene il suggerimento illuminante che la forma di un nudo è pura grammaticalità, ma ha in sé un proprio tempo di amore, di sconfitta, di ombra, di ossessione, di luce.

Davanti a queste carte di Borghi, riconsideriamo tre artisti che si pongono come un fondale etico e psicologico: Manzù, Broggini e Morlotti. In tutti e tre questi artisti il nudo viene a cadere come un fatto terminale di una cultura artistica e figurativa: nei disegni di nudo di Manzù di declinano lo struggimento, la sensualità, le nebbie, l’eros della scapigliatura o di una tradizione eccentrica ma vitale qual è la pittura bergamasca; nei bellissimi nudi di Broggini c’è anche l’acutezza lirica della cultura francese; in Borlotti il nudo viene quasi a costruire una forma del suo informale  o una luce d tramonto nelle sie ultime Bagnanti.

Qui i nudi invece sono fuori dalle categorie di un interno, di una tradizione, di un movimento: sono ricaricati di un colore che è il luogo di un pellegrinaggio, di ogni nostalgia, di ogni colore. Per l’approdo infine alle ultime carte dei volti, si può raccogliere il suggerimento di una recente mostra di Sciaffusa, nelle sale del Miseum zu Hallerheiligen, che accanto a disegni di Alberto Giacometti ha proposto una ricognizione sul tema affascinante del volto nei modi di forma, di forma, di apparizione.

Partiti da un autoritratto, questi disegni di Borghi approdano alla cifra disperante dell’irrealtà: come un’enigma di Brancusi, o come uno specchio che continua a rinviare una sorta di remota, ineliminabile presenza autobiografica. Il titolo di un saggio; L’illusione della fine o Lo sciopero degli eventi, può essere assunto come sigla riassuntiva di un tempo compiuto, spogliato di principio, di necessità, di determinazione: il tempo si sottrae all’altrove di un evento, si coniuga nella sparizione. In queste ultime carte, il volto è una pura forma, immobile e perfetta: ma rimane l’archetipo, la metafora senza tempo, del viaggio, della dominazione umana.