Marina Cotelli

Apparso su IL CORRIERE DELLA SERA, 3 marzo 2002, p. 59 “Recensione /arte”

 

La maledizione della scultura moderna è la necessità di superare il peso della materia.  Le forme svuotate di Moore, i “Mobiles” di Calder, le figure di Giacometti segnano le tappe storiche della ricerca di leggerezza.  In questo alveo si colloca Claudio Borghi, scultore potente anche nel fisico, in grado di plasmare ottone, acciaio inox e ferro con esiti di sorprendente levità. Di formazione tipicamente lombarda, Borghi è stato allievo e poi amico di Floriano Bodini. E con l’artista di gemonio condivide l’orgoglio dell’arte per l’arte.

Queste dodici opere dell’ultimo triennio evidenziano il legame con i padri nobili della scultura. La tecnica di Borghi si concentra sul colore-luce. Ruggini, patinature d’ore, smalti, rossi e blu ricavati con la fiamma ossidrica dialogano con la luce, quasi fossero la pelle dell’opera. Una pelle percorsa da cicatrici e sporgenze, segni delle saldature a vista. E, all’interno, cavità vuote. I soggetti? Forme distillate, porte e usci soprattutto. Ma anche un accenno biomorfo (la struttura arborescente di una “scultura in punta di piedi”) e il paesaggio lirico dell’ “orlo del cieli”.