Claudio Cerritelli

dal catalogo della mostra

“SCULTURE DI CLAUDIO BORGHI: AI LIMITI DEL PAESAGGIO POSSIBILE”

 

La scultura di Claudio Borghi lega la sua intenzione allo spazio del paesaggio, inteso come nucleo materico che si affida al frammento o al singolo motivo iconografico più che all'immagine totale del luogo.

Del resto la scultura contemporanea, quella che per esempio nel secondo dopoguerra scruta il corpo della materia, vale a dire le energie contrapposte degli elementi primari attraverso il compenetrarsi d'acqua e di terra, d'aria e di fuoco, di stati liquidi e di sostanze solide: ebbene, questa scultura guarda al paesaggio come luogo logorato dagli umori controversi dell'esistenza, come territorio di segni contradditori che insorgono per riconquistare un punto nello spazio, e per farlo proprio, fisicamente presente in modo perentorio.

Anzi, è proprio l'identità della scultura, considerata corpo che cerca la propria origine in se stessa, a dettare le possibilità del paesaggio come spazio in cui si collocano i gesti e i pensieri dello scultore, la sua volontà di occupare il vuoto e di solidificare le vibrazioni spaziali in questa o quella immagine: un albero, il vento, l'orlo del cielo, la pioggia.

Queste presenze sono indicate nei titoli di alcune opere che Borghi ha costruito nei primi anni novanta, dichiaratamente legate al valore poetico della natura, sentita come memoria di sensazioni atmosferiche, luogo di energie capaci di imprimere nella materia quella giusta tensione emotiva che l'immagine del paesaggio-appunto richiede.

Si tratta di un lento esercizio di costruzione della forma, un paziente montaggio di elementi plastici, una successione di atti che ricongiungono le membra sparse della natura dell'unità provvisoria dell'opera, avvertita come precaria stratificazione dell'essere.

Nella scultura di Borghi, al di là di una naturale inquietudine esistenziale, parlano soprattutto le linee di sutura dei ritagli di ferro, saldati come corpi instabili che alludono ad un paesaggio arcaico, tagliato e ricucito tra bagliori di fuoco e tracce di fumo. Un paesaggio duro e spietato, che si è fatto dilaniare dagli eventi atmosferici per riproporsi in un'immagine diversa, le cui ferite, per quanto rimarginate, sono diventate segni di una nuova naturalità.

Pur attratto dalla ricerca dei puri equilibri, l'artista non rinuncia ad ascoltare il suono del vento intorno alla montagna, questa forma metallica che tende verso altezze sconosciute; e neppure sa rinunciare ai rumori di fondo della terra, a quel gesto che si addentra nelle viscere della materia per ricavarne risonanze misteriose e oscuri presagi.

Tra i densi umori che accompagnano il proprio discgregarsi e la leggerezza tangibile delle nuvole, le opere di Borghi sono sintomo di un paesaggio ancora possibile, vale a dire di una tensione rappresentativa che la scultura lombarda del secondo dopoguerra ha indagato come proprio specifico orizzonte poetico, da Milani a Ghinzani, solo per citare due esponenti sospesi tra storia e attualità.

Borghi ha guardato con consapevolezza a questa matrice culturale, la sua arte risente di un'idea di scultura densa e materica, concentrata sul mito dell'origine, proprio su quella sostanza dell'essere che nella stagione storica dell'informale ha mostrato il suo punto di massimo scardinamento della forma.  Da queste libertà strutturali del fatto plastico,e dalle sue profonde erosioni spaziali l'artista esplora i residui di una realtà fragile e indifesa, quella appunto della natura che va perdendo i suoi riferimenti, sforzandosi di non interrompere il rapporto con l'atmosfera circostante.

A questo clima di ricerca contribuisce anche un'intensa produzione di disegni che Borghi intende come esplorazione del fondo interiore delle cose, cammino verso il valore terrestre delle forme, dunque anche verso il mistero che le accompagna.

Più che con la pittura è infatti nell'assoluta dimensione del segno che Borghi riesce a dialogare con l'inquietudine della forma scultorea, in quanto capacità di captare l'intenso fluire del mondo, l'emozione totale dello spazio.

Se nella scultura cosiddetta informale l'avventura della materia è sottomessa alla sensibilità del gesto che segna la superficie e la percorre come intuizione di ciò che va oltre le sue stratificazioni, nelle ricerche successive questo sondaggio  prosegue offrendo ampi margini di immaginazione al paesaggio, inteso come memoria di uno spazio perduto, eppure ancora vivo, silenziosamente poetico.

In questa fertile zona sospesa tra anima e corpo della scultura Borghi trae energia e convinzione per approfondire il suo dialogo con lo spazio, attraverso opere che vanno aggregando nuove sensazioni, desideri corporei, umori metallici che nascono tra ferri contorti e superfici deformate, trattate con fare essenziale e vissute nell'ipotesi di arcaiche strutture.

Accanto all'ossessione lirica del paesaggio l'artista sta sentendo sempre più il bisogno di dilatare il movimento plastico della forma, quasi che le occasioni della natura (alberi, nuvole, cieli) non siano più sufficienti a suggerire il respiro dell'ambiente circostante, troppo preoccupate - forse - di salvare il racconto del paesaggio, la favola illusoria della sua sopravvivenza in un mondo tecnologico.

Se nei frammenti di paesaggio dei primi anni novanta i pezzi di lamiera venivano saldati in un percorso di linee che segnavano un territorio di segni straziati, affranti e persino dolorosi, ebbene nelle recenti opere si avvertono strutture formali sempre più libere dal vincolo psicologico della natura e capaci di essere strumenti di turbamento dello spazio. La sensazione è che ogni scultura abbia perso il proprio punto di appoggio gravitazionale, quasi a contraddire i rapporti di equilibrio esistenti: l'organismo plastico esige uno spazio più aperto, un territorio capace di essere coinvolto dalle sue stesse contraddizioni, da presenze che hanno qualcosa di urtante.

Questo avviene per esempio nel grande "Tavolo" d'acciaio (230 x 250) con la sua forma sconvolta e ribaltata, schiacciata e deformata in più punti, come se fosse stata piegata dalla forza del vento, sbalzata fuori dal suo luogo originario per occupare altri punti dello spazio.

E' una scultura, questa del grande tavolo, che porta con sé l'eco dell'impatto fisico, il suono della lacerazione che si ripercuote sulla superficie, lo schianto del materiale che mantiene la sicurezza dei suoi movimenti anche se la forma iniziale è stata distorta, incurvata, ferita da una rientranza che determina una tridimensionalità più accentuata.

La qualità fisica di questo incontro-scontro con l'acciaio consente a Borghi di lavorare con maggiore libertà spaziale accentuando quelli che sono i caratteri persistenti della sua ricerca, vale a dire la durezza dei contorni, la determinazione dei tagli e delle saldature legate al dinamismo del gesto, nonché l'attenzione verso il colore-luce che nasce dalla scelta stessa dei materiali.

E', infatti, proprio l'atto di ricongiungere superficie a superficie, pezzo a pezzo, che garantisce allo scultore ampi margini di manovra durante l'esecuzione dell'opera, così che la modellazione del metallo assume inattese soluzioni plastiche, esiti e valori tattili non prevedibili: rilievi, spessori, sporgenze ed incavi che trasgrediscono e arricchiscono il pensiero della scultura. Questo avviene perché il lavoro dell'artista, pur partendo da un disegno o da un bozzetto, non ha mai precisi orientamenti ma si modifica volta per volta, adeguandosi alle esigenze dello spazio. alle situazioni che si determinano intorno al corpo dell'opera, essendo importante anche ciò che ne supera i confini stabiliti. Sicché la scultura sembra muoversi, acquista rilievo e profondità, avvolge lo spazio e ne viene catturata, lega a se flussi di luce, oscurità e riflessi che il metallo determina nella mobilità della superficie.

Non può far altro, lo scultore, che assecondare gli scatti del materiale, le mosse attraverso le quali l'immagine si svincola da qualunque modello progettato per determinare la propria spazialità, il respiro della sua azione.

Borghi ha saputo - in questi anni di silenziosa maturazione - ascoltare la voce del materiale, accogliere i suggerimenti che ogni attimo di scultura propone come energia interna, non legata a progettazioni astratte, ma aderente all'espandersi e al contrarsi di una superficie, alle diverse implicazioni della luce, all'esigenza del colore di essere elemento non occasionale ma rafforzamento degli attributi della materia.

Con atteggiamento umile l'artista ha saputo impadronirsi di ciò che le prime sculture degli anni novanta non ancora avevano saputo sviluppare, prese come erano dal problema di rappresentare alberi, nuvole e cieli, vale a dire l'elogio del paesaggio come nucleo e frammento in lotta con se stesso.

In queste ultime prove - a cui il senso di questa mostra guarda come al proprio orizzonte futuro - la ricerca di Borghi si esibisce come volontà di nuove risonanze plastiche, di tensioni che rimbalzano altrove, nello spazio dominato da forme anomale, irregolari, mutevoli.

Sono forme - queste - che rimandano al mito dell'energia, al vero fulcro di ogni opera che non voglia immobilizzare il proprio desiderio plastico in una soluzione rassicurante ma desideri portarlo oltre il perimetro, trasformarlo sempre in azione: ai limiti del paesaggio possibile.

 

dicembre 1996