Luigi Cavadini

dal catalogo delle mostre

“CLAUDIO BORGHI: LA SCULTURA COME LUOGO DI PENSIERO”

 

 

Parla di silenzio, parla di contemplazione, Claudio Borghi, quando cerca di immaginare l’ideale fruitore delle sue opere.  O meglio quando cerca di immaginare l’opera cui aspira. Scrive, infatti: «… mi piace il paesaggio: non esige da me la sua “comprensione” … La sua contemplazione, in termini rigorosi, implica da parte mia la dimenticanza di me. Un oggetto degno di contemplazione è, in effetti, un oggetto che annulla chi percepisce. Non sarebbe male che il mio lavoro assomigliasse a questo …»

La premessa è importante non per capire il lavoro di Borghi, ma per capire lo spirito da cui esso nasce.  A sollecitarne il pensiero è la quotidianità, sono gli incontri, con le persone ma anche con le cose. Egli vede, guarda, registra. Non il particolare o l’insieme, ma la sostanza di ciò che vede.

Tutto questo diviene sollecitazione mentale, luogo di pensiero. Così nel tempo matura una visione che prima prende forma di segno - di segni  in divenire, disegni in evoluzione - sfrondando tutto quanto è superfluo, liberando l’immagine mentale che pian piano si va affrancando da condizionamenti e da inutili contesti. Fino a quando il segno si consolida, si fa leggere nella consistenza  dell’essere, urge per essere nuovamente materia.

Qui il confronto da mentale si fa fisico. Si passa dalla carta alla materia dura, che l’artista addomestica alle proprie necessità. Fogli di acciaio o di alluminio o di ferro diventano il medium attraverso il quale tradurre la visione in realtà tangibile. Come Vulcano, Borghi si cimenta tra incudine, fuoco  e martello. Piega, taglia, salda, compone, salda, costruisce … Come Vulcano, crea. Nel rumore, per tentare di raggiungere quel silenzio che fa contemplazione.

Le opere

Mentre guardo le opere più recenti, penso alle sue porte - strette, multiple, fragili, porticine - alle sue soglie, ma anche ai luoghi delle visioni più poetiche e fantastiche di inizio millennio, dove gli angeli dubitano, su all’orlo del cielo. Per poi scendere ancora , a metà del decennio con i piedi per terra attraverso un ascensore precario per giungere alla casa  o alla città e sistemarsi in un angolo a godere la prova d’orchestra. E’ sul filo di questi lavori che si situano le proposte più recenti, sculture da terra e sculture da parete dove mai è necessario un basamento ma dove, se è il caso, l’opera ingloba il basamento, integrandolo pienamente in sé. E’ il caso di Fiori alti in cui la base diventa una sorta di svettante tronco (o, anche, potresti pensare ad un raffinato vaso) su cui elegantemente e leggermente si ergono questi fiori  la cui natura si reinventa adeguandosi al piacevole insieme.  In questa logica prendono vita ulteriori lavori dove su un piano pullulano strane piante-animali, che vibrano su una base che solo simula un parallelepipedo, ma, uniformata nel colore - bianco -, appare in perfetta e naturale simbiosi con esse. Sull’onda (è proprio il caso di dirlo) di questa vibrazione si situa la lunga scansione di Moleskine,  interpretate in una sorta di libreria dalla disposizione varia che appare leggibile sia sul fronte che sul retro rispondendo ad una musicalità il cui ritmo risponde ad una casualità espressivamente efficace.

Per capire a fondo la ricerca di Borghi, mi sembra paradigmatico uno dei temi affrontato negli ultimi tre anni.  Nell’obiettivo dell’artista è la pioggia, un evento ordinario che forse mai ha incuriosito e sollecitato in sé e per sé e in modo così eloquente la riflessione di uno scultore. Semplice a dirsi e a immaginarsi. Estremamente complicato pensare di dare ad essa una forma palpabile. Borghi vi si confronta con caparbietà, andando a costruire “gocce continue” che dall’alto scendono a terra, evidenziando la loro casualità di forma e di direzione, suggerendone la trasparenza con la sottile patina d’argento che le ricopre e, infine, cercando di liberarle dalla struttura che le può sostenere. Questo è il problema maggiore che trova una prima soluzione nella Grande pioggia e che infine si risolve con Pioggia pesante dove l’idea si ingigantisce e riassume tutto in sé. Allora basta che la pioggia tocchi la terra per sostenere da sola tutto il cielo…  Oggetti, questi, “degni di contemplazione”. Come pure, per un altro verso, avviene con Cattedrale, opera composta da tre elementi in acciaio policromo, grandi fogli piegati e saldati da una mano gigante: nel loro insieme, nella disposizione a semicerchio, il grande trittico diventa una cosa sola con l’aria che lo contiene. E non puoi non pensare ad una grande abside, scandita da colonne e da lunghe finestre, l’abside più semplice, la più antica (quella vera, romanica, nella mia visione!). Il fruitore, è confuso, si perde nella suggestione, si ritrova nella storia, quella del mondo e dell’architettura, ma anche nella sua storia interiore fatta di conoscenze, di sollecitazioni, di riflessioni: una grande abside, ma potrebbe essere anche un dolmen o un cerchio megalitico, in una lettura che sa di sacro e che racchiude un mistero in cui è piacevole abbandonarsi.

L’accostamento alla scultura di Borghi per la via più naturale, quella che presume di seguire il suo pensiero perché si affida ai titoli da lui attribuiti alle opere, può rendere agevole la lettura dei singoli pezzi e forse anche dare una inquadratura di insieme.

Ma vorrei porre un quesito. E se queste opere ci fossero proposte prive di ogni riferimento, di ogni dato, di ogni collegamento con l’autore. Se le volessimo vedere alla stregua di reperti archeologici recuperati improvvisamente dal passato? Passerebbero l’esame di artisticità, riusciremmo ad accettarli e a comprenderli? Diamo per scontato che abbiamo frequentato molta scultura, che ci siamo costruiti dei canoni di lettura, che siamo aperti ad ogni azione od operazione d’arte. Ebbene dobbiamo dare atto che, qui, ma in tutta la scultura di Borghi, si assiste ad un sano confronto tra pieno e vuoto e, se definissimo per ogni scultura un parallelepipedo che la possa contenere, ci accorgeremmo che spesso è più il vuoto che il pieno, dove per pieno intendiamo la parte di spazio occupato dalla materia-scultura (anche se qui questa materia, che è la pelle di un involucro chiuso,  è solo contenitore di un altro vuoto). Al punto che sarebbe più logico parlare di scultura del vuoto. La presenza della scultura nello spazio è leggera, ma è comunque una presenza in cui vuoto e pieno dialogano. Il vuoto scivola sul pieno, ne accarezza le ruvidità, vibra con esso. Il pieno, più statico, lascia fare, ma rimanda sensazioni con quella sua pelle ruvida fatta di rugosità e di anfratti, di superfici rigide e di forme compatte, che comunque dettano legge perché chiudono passaggi (e altri, ampi, lasciano aperti) e impongono percorsi . Certo che se il vuoto (mi riferisco a quello esterno) fosse riempito da folate di vento, allora la “cosa” inventata dall’artista potrebbe anche “cantare”. 

Ma non è tutto. Nella valutazione del dato visivo, molto dipende da quali sono gli equilibri tra le parti che compongono una scultura. Il gioco dei “pesi” (e dei “non-pesi”, vale a dire i vuoti) appare qui sempre calibrato: non rilevi mai cadute o tensioni. Le forme-materia e le forze che le legano non rivelano scompensi e non generano timori. Tutto è sospeso (anche quando la parte più pesante fa da base). Nulla prevarica nulla. E questo ha un senso nella logica antica (che penso e spero sia anche la nostra) dell’idea del valore estetico, del “bello nell’arte”. E l’armonia dell’insieme, secondo gli insegnamenti di  Johann Joachim Winckelmann di qualche secolo fa, nel suo comporsi di calibrati rapporti tra pieni e vuoti , di equilibri e di azioni tra le parti, eleva  il manufatto ad opera d’arte.

Così una scultura che possiamo definire astratta (ma astratto vuol dire semplicemente  “tratto da”)  e che come tale avrebbe un significato in sé, senza necessari riferimenti a cose reali,  finisce per essere credibile come qualcosa di “bello” quando - annotò  Camille Corot  - è “intrisa dell’impressione che abbiamo ricevuto al cospetto della natura”.