Simona Bartolena

dal catalogo

“Dalle 5 alle 7. Opere 20011 - 2014”

Tra cielo e terra

 

Metalli leggeri come nubi. Presenze silenziose come assenze. Strutture immobili dinamiche come folate di vento. Pieni che raccontano il vuoto. Creature artificiali che interpretano elementi naturali. Credo stia proprio in questo complesso gioco di contraddizioni, di inaspettati contrasti, di ossimori, il segreto delle opere di Claudio Borghi: un raffinato rincorrersi di sensazioni opposte, che si susseguono con ritmo serrato, che suggeriscono percorsi di pensiero e di percezione. Sono opere fortemente sinestetiche, che catturano i sensi e arrivano alla mente.

 

Un giorno, chiacchierando fuori “dai ruoli”, in una di quelle conversazioni pourparler che poi riescono sempre a essere le più preziose nella comprensione di un artista, Claudio Borghi mi ha detto che a suo avviso la questione fondamentale non era scegliere un materiale e farlo proprio, ma “ di farlo cantare”. Ecco: è esattamente questo il punto. Borghi riesce a far cantare la materia, portandola a emettere un suono che è come il canto di una sirena, incantevole e ipnotico, difficile da arginare, impossibile da evitare.

 

Le sue sculture stanno lì, nello spazio, lo occupano ma non lo ingombrano. Sono eleganti, sicure, monumentali eppure, a guardarle bene, tradiscono una fragilità interiore – quasi una timidezza –  capace di rendere umana la loro dura scorza metallica. Sono ritrose per timidezza e per orgoglio, per citare le parole stesse di Borghi, che sulla possibilità (e la necessità) di condurre una vita schiva ha riflettuto a lungo:

 

“Trasformare un sogno di solitudine in vita schiva, lontano da tutti, è costoso sotto ogni profilo”, scrive in una delle sue molte, e sempre motivate, riflessioni, Soltanto un’esigua minoranza è determinata nel perseguire un drastico ridimensionamento del livello di esposizione sociale. Allentando relazioni e conoscenze si transita a una vita ai margini, coltivando i tempi interstiziali, le pause, gli intervalli sottratti al sonno, già degli insonni per vocazione. Si inizia, passo dopo passo, standosene a casa propria... Vivere bene la solitudine è un privilegio. Se stare insieme è bello e ha i suoi vantaggi, non meno appagante è lo stare da soli. La scelta schiva non equivale a schivare la vita, a ritrarsi in una beata vacanza in qualche luogo disabitato per inseguire la propria felicità in santa pace. E ssa comporta una cognizione del dolore del piacere straniante, dell’imparare a perdersi, del ricordare e del riflettere, dell’esercizio della consapevolezza del tutto ignote ai presuntuosi, ai sicuri di sé e agli arroganti, che l’essere comunque sempre soli, pur immersi in una sterminata o esclusiva adorata moltitudine, è un irrinunciabile diritto e non un capriccio dell’animo in crisi, l’esibire il tremore onesto e sincero dei modi, evitando di fare a gomitate e scegliere tra cielo e terra”.

 

Potremmo, del resto, sostenere che le sue opere si collocano proprio lì: tra cielo e terra. Guardano verso l’alto ma non sono affatto metafisiche, anzi, quasi l’opposto: sono schiette e concrete, suggeriscono immagini alte senza tradire la qualità tangibile del vero e la loro sostanziale umanità, la loro fisicità. Esse non evitano il confronto con la realtà, anzi appartengono al Mondo Naturale, da cui sono germinate, contaminandosi poi con l’evanescenza dei luoghi del Pensiero; sono gocce di pioggia, fiori, alberi, paesaggi, nubi… ma anche porte, steli, reperti. Non si abbandonano mai all’astrazione pura, mantengono costante e saldo il loro legame con la visione che li ha generati. Un rapporto con la Natura che si allontana sensibilmente dal concetto di rappresentazione, spostandosi sul piano della rielaborazione emotiva, in una sintesi efficace tra sfera personale e sguardo universale, tra suggestione individuale e memoria collettiva.

 

Anche il momento creativo si muove su due piani: quello dell’intuizione, dello sguardo, e quello della riflessione. 

 

Per seguire sempre il corso del pensiero dello scultore:

“...È chiaro che nella nostra epoca frenetica, distratta, rumorosa, seriosa e spietata fatta da geni c’è bisogno del contrario: d’ironia, di pazienza, tolleranza, gentilezza, umiltà, silenzio, in poche parole di timidezza. Ammesso che i pensieri a cui convengo si possano annoverare in tale categoria, non ritengo di commettere presunzione alcuna nel riconoscermi proprie -  più che altro per chiarirmi le idee - almeno due modalità del pensare.  Mi piaccia o no, questi sono i mezzi di cui dispongo e, coi quali - sia pur modesti, ahimè - devo trarre il meglio. La prima è quella del pensiero fulmineo, dell’intuizione, dell’illuminazione improvvisa, che ti colpisce in un lampo, dopo di che rendendo chiaro e comprensibile ciò che per giorni avevi sotto il naso, chiarisce ciò che un attimo prima era tutto confuso. Quando il significato di quella parola, - ma anche di segno, spigolo, elemento - detta per caso, di quel vezzo insignificante che in altre situazioni sarebbe passato inosservato ma che in quel contesto si è imposto.

E’ proprio in seguito al suo continuo imporsi periodicamente e ritmicamente, spesso arricchito, come a voler suggerire qualcosa: e questo diventa importante, da salvaguardare: questo è il mio spazio”.

 

Le opere conservano con straordinaria evidenza questo passaggio. Conservano la freschezza dell’intuizione, direi quasi dell’impressione contingente tratta dal vero – e la profondità della riflessione che ne consegue, magari anche a distanza di mesi, o di anni. Non c’è fretta nell’operare di Borghi; non c’è urgenza né bisogno di correre.

 

Elogio della lentezza

La lentezza, tragicamente assente dal nostro quotidiano, ritrova la sua ragione d’essere e detta il passo, talvolta conduce in sentieri impervi, impone la curva laddove poteva esserci un rettilineo, complica la traiettoria, non facilita il gioco. Ma alla fine arriva. Trova

 

l’equilibrio, evitando l’inciampo, l’approssimazione, i molti tranelli nei quali la fretta ci avrebbe condotto. E questa lentezza non riguarda solo lo scultore: coinvolge anche chiunque si ponga di fronte a una scultura di Borghi. Non c’è spazio per sguardi distratti.

 

La forma cattura, accarezza lo sguardo, lo rapisce e lo accompagna garbatamente ma con fermezza lungo le linee e le superfici, percorrendole in lungo e in largo: un’esplorazione conoscitiva che apre le porte alla fase di elaborazione, perché le sculture di Borghi sono innanzi tutto luoghi del pensiero, spazi di riflessione. Sono momenti di poesia, come certe giornate di nebbia in cui tutto è diverso da sé, silenzio che si fa musica, ombra che si fa presenza; giornate in cui l’aria si fa tangibile, punge il viso con piccoli spilli umidi, rendendo visibile ciò che di consueto non lo è e nascondendo ciò che di solito si può vedere. Sono sensazioni che l’artista ama descrivere con le sue parole e con la sua arte, sempre sul filo della composizione letteraria, in bilico tra il ricordo e la citazione dotta.

 

“Gli atomi, di cui è fatta ogni cosa, sono vorticosi”, scrive Borghi. “Gli oggetti e le cose sono sempre mobili, ci vengono incontro e ci lasciano: è sempre un attraversamento di nuvole, di vapori e di presenze. La loro immagine sosta pochi istanti stimolando i sensi a fuggire nella memoria, che, se si ripete, la trattiene. Questo stato speciale del “sentire” è connotato dall’indistinguibilità e dal vago: un paesaggio che si rende coro provocando, così, un sesto senso che sa. Così un albero incontrato, ogni volta che lo si rivede, non è più quell’albero. E’ sempre un po’ diverso, ancor di più perché l’abbiamo ricordato, magari disegnato o scritto su un appunto. (…) Come nella nebbia, gli oggetti e le cose sono sempre mobili, ci vengono incontro e ci lasciano. Camminare nella nebbia è tra i più leggendari momenti della poesia ossianica e romantica, specie se tra le tombe. Nella nebbia non ci si perde a piedi, si è già perduti. Nell’istante in cui vi entro non lascio tracce: ingoiato da una sensazione di tenebra pur nel giorno pieno. Il suolo è l’apparizione di pochi centimetri: più in là, di nuovo, il lucore del nulla. Non sapere se a pochi passi di distanza da me ci sia qualcun altro, ci sia ancora, ci sia mai stato, fa parte di questa attrazione ben più evocativa dell’esperienza diretta… Finire nella nebbia, trovarmi dinanzi a un banco improvviso e nuovamente, uscirne, sono i noti altrettanti movimenti di ogni stato di crisi, di ogni spaesamento e pauroso sentimento di impalpabilità, di qualcosa che solitamente ti avvolge. È come al camminare d’estate in pieno solleone, per forza d’inerzia nelle pianure, sui greti dei fiumi, sulle spiagge: la luce è totale e avvolgente. Un bianco zinco rende metallico ogni gesto e mi impone, pur col mio passo lento di sudore, di annullarmi una volta per tutte. Non c’è differenza tra l’intorpidimento di quest’ora e quel che accade nella nebbia brumosa: così implacabile e violento da non dare via di scampo. Qui e nella nebbia, è la luce che comanda. Il disorientamento è al colmo. In quest’ora, su questo sentiero, nessuno ha voglia di apparire. Forse, la morte non viene dal buio come si crede, ma dal biancore d’argento violento, piuttosto. Mi piace il bianco. Mi piace errare nella nebbia. E’ il mio spazio. Errare è trovare il vero, anche se nel suo contrario”.

 

Ed è così, girovagando come un flâneur romantico, apparentemente senza meta, che Borghi trova le proprie ragioni e i propri istinti creativi. Poi è tutto un sapiente gioco di mani, perché – sebbene la qualità poetica delle opere tenda a farcelo dimenticare – la scultura è anche e soprattutto quello: un mestiere. La pratica di piegare la lamiera, di schizzare un’idea su un foglio, di plasmare una forma, di disegnare una struttura Borghi la possiede a pieno. Non è schiavo del creare a tutti i costi, rifugge dalla ricerca del bello assoluto (cos’è, poi, il bello assoluto?) ma non teme la gentilezza del dettaglio. Conosce la misura e sa come far dialogare la delicatezza di un fiore con la durezza di un monolite di metallo senza passare il segno, in quel miracolo di equilibrismo che dona alle sue sculture un meraviglioso senso dell’ordine e dell’armonia.

 

Quando è tra le pareti del suo studio il flâneur torna a usare le mani. Torna a ragionare di volume, di forma, di colore. Porta la vastità dello spazio esterno dentro alla stanza, così come riversa l’immensità dello spazio del pensiero dentro ai confini delle sue strutture metalliche. È sorprendente quante cose contengano quelle linee, quegli spigoli: “ho la presunzione di metterci tutto quello che posso”, spiega l’artista… Sarà per questo che sono così affascinanti?

 

In dialogo

Di grandi o piccole dimensioni che siano poco importa: le opere di Borghi custodiscono spazi immensi, li abbracciano in silenzio, tenendo stretto il loro segreto, pronte a svelarlo solo all’osservatore più attento, al viaggiatore che sappia davvero ascoltare la loro voce.

Alla loro forza evocativa contribuisce senza dubbio la monocromaticità delle loro superfici, soprattutto quando declinate in bianco, il colore d’elezione di Borghi. “Il bianco non è mai bianco, è sporco, grigio, e prende il colore del tempo”, spiega lo scultore. Un bianco che si moltiplica in variabili inaspettate, che leviga le superfici e le uniforma, che astrae l’oggetto senza smaterializzarlo. Un bianco che accentua i caratteri, sottolinea le forme, ammorbidisce gli spigoli ma non li cancella. Un colore che parla, come solo il bianco sa fare, nelle sue infinite e sensibili sfumature, territorio di incontro tra la luce e l’ombra.

 

Ma fondamentale è anche il loro sapersi relazionare con gli ambienti circostanti, l’aprire il loro spazio interiore a quello esteriore, mettendo in dialogo due piani difficili da tenere in equilibrio: collocate in luoghi diversi, le sculture di Borghi sembrano trasformarsi per parlare all’ambiente che di volta in volta le accoglie. Che siano allestite in un giardino o in una piazza cittadina esse sono, semplicemente, vivono nell’eterno presente, rinnovandosi attimo dopo attimo. E così come sanno abitare gli spazi sanno anche incontrare la gente. La scultura che Borghi ha progettato per la piazza di Barlassina mi pare offrire un esempio straordinario di questa loro preziosissima dote. Come il proscenio di un teatro classico, l’opera sa passare dalla ribalta al secondo piano, sa tenere banco quando gli attori sono fuori scena e farsi da parte quando l’azione riprende. Quel piccolo bosco di metallo, quel luogo dell’immaginario – di ascendenza quasi magrittiana, con quelle enigmatiche sfere misteriosamente rotolate ai piedi degli alberi-colonna – è pronto ad accogliere la presenza umana, a trasformarsi in scenografia, a mettersi sullo sfondo, quando pochi istanti prima aveva dominato la scena con la sua monumentale presenza.

Il teatro costituisce una componente importante nell’opera di Borghi. Il teatro inteso come luogo di relazione, non come maschera e finzione; il teatro come proscenio su cui salire e confrontarsi prima con se stessi e poi con gli altri. Il teatrino di un bosco, di una radura, di uno scenario naturale: il teatro della vita, infondo, tratteggiato però con poetica leggerezza, senza pesantezza, senza presunzione.

 

Una continua scoperta

“Rilke direbbe che è così che gli angeli rendendo mobile quello che attraversano, mutando col suono il tempo e lo spazio... Anch’essi, come me - sono sicuro - cercano vie poco battute per affacciarsi sulla soglia e scomparire, (imprevisti, così come erano giunti) messaggeri di un esistere solingo, in disparte, per lasciarsi occupare da una presenza  irraggiungibile, purché sia essa a farsi incontro”.

 

Mi piace il continuo ondeggiare tra istinto e ragione di Claudio Borghi. Mi piace quel suo vagare per mondi letterari e poetici, citare i classici senza farsi pedante, ragionare sulle cose. Pensando a questo testo l’ho costantemente immaginato per quel (poco, infondo) che l’ho conosciuto, con quel suo atteggiamento un po’ disincantato, a tratti ironico, talvolta serissimo. Trovo interessante (e ultimamente anche raro!) quel modo di coniugare il pensiero, la scrittura e l’atto creativo. Trovo interessante, soprattutto, che questa complessa struttura intellettuale non vada a discapito della freschezza della sua opera, che si presenta ai miei occhi ogni volta diversa, sempre forte, emotivamente coinvolgente ma mai tormentata, sicura nella sua serenità, nell’equilibrio tra il rigore delle forme e la gentilezza dei dettagli, tra il silenzio e il suono.

Borghi è scultore. È nato scultore e dello scultore ha il piglio, il tratto, la forma mentis. Eppure non sento la necessità di metterne il linguaggio in relazione ad altri maestri dell’arte plastica. I nomi ci sono, è chiaro… Ma sono confronti o possibili eredità che non chiariscono né spiegano la sua ricerca. Le sculture di Borghi, piuttosto, a dispetto delle loro severe forme geometriche, mi hanno sempre fatto pensare ai quadri di Corot, ai paesaggi di neve di Sisley, alle cattedrali di Monet, alle abbazie nella nebbia di Friedrich. E mi hanno ricordato i versi dei poeti romantici e le note di quei musicisti che hanno fatto della rarefazione della melodia, della pausa e dell’assenza di suono delle chiavi emotive. Eric Satie su tutti. Mi piace ascoltare il loro silenzio eloquente. Mi piace osservare il modo con cui abbracciano i loro segreti, stringendoli tra le loro pareti di lamiera. Mi piace come ingannano l’occhio e il tatto, come giocano sui contrari, come svelino il vuoto là dove vediamo un pieno, come siano consapevolmente leggere quando le avremmo dette pesanti… E come appartengano al mondo dell’Uomo, pur sembrandoci provenire da lontano, da mondi altri.